L’ULTIMO CAMPO DI CANAPA di anonimo budriese

L’amico Renato Trestini , già autore di racconti, poesie ed invettive, pubblicati su giornali e riviste sotto lo pseudonimo di Anonimo Butriense, si è detto lieto di rivivere con noi, nel suo caratteristico stile, un momento di passaggio della nostra storia tra campagna e città a patto, aggiunge, che ne facciamo buon uso.

L’ULTIMO CAMPO DI CANAPA

Ovvero di come uno che non si è mai fatto una canna
si fece tuttavia la più colossale fumata che si possa immaginare

Cruciale, starei per dire, con l’enfasi che ogni tanto inopinata mi prende, non è tanto avere visto i canvèr folti dei fusti verdeggianti di canapa, cupi e compatti come selve, alti più di due persone, nell’intrico di foglie palmate e lanceolate nella loro stipula col piccioletto, onde nell’acre profumo qualcuno sovente per indotta bramosia ci s’ intanava con qualcuna, né aver visto i masnaduri schiumanti raganella ribollire sotto la canicola d’agosto. Canvèr , canepaio, è la colmata della centuriazione romana che da trecento anni veniva coltivata a canapa e masnadur era lo stagno in cui i canevazzi venivano macerati e poi maciullati.
Ma di questo m’importa più niente e non ne volevo neanche parlare. Chi vuole saperne di più ci si arrangi. Come per chi ha vissuto epoche di imperatori, cruciale è aver visto l’ultimo o per chi visse le praterie cruciale è aver visto l’ultimo bisonte e per Laurence d’Arabia cruciale fu vedere l’ultima carica della legione arab , cruciale per chi visse coi coltivatori di canapa è aver visto l’ultima piantagione. Questo, tanto per dire che c’è sempre un momento che ti accorgi di quello che il tempo preparava per te. Mentre la clessidra fila silenziosa, tu puoi non accorgerti neanche di te stesso, ma nel punto che la clessidra la devi rovesciare, quella è una tacca del tempo che passa.
Allo stesso modo, m’importa niente raccontarvi tutto quello che con la canapa ci potevi fare, né la fatica plumbea che da notte fonda al tramonto pesò sui nostri padri che nelle coltivazioni industriali ci dovettero lavorare. Da tempi immemorabili con la canapa gli uomini ci hanno fatto di tutto. Con la canapa facevi il cordame e le vele delle navi. Con la canapa facevi abiti freschi e lenzuola ruvide che ancor oggi è delizioso dormirci. Tale era risparmiosa oltreché esorbitante la pianta, che non impoveriva neanche il terreno in cui annualmente cresceva.
Certe pasionarie che mi sono care e che hanno studiato, assicurano che con la canapa potresti farci anche case e addirittura palazzi indifferenti ai terremoti, soluzione al cosiddetto cemento depotenziato, buoni inoltre per essere isolanti e traspiranti, nonché medicamenti più efficaci e rispettosi di tanta altra farmacia, e ricette di gustosissimi manicaretti. E che a suo tempo ci avresti potuto addirittura sovvertire la storia di motori e idrocarburi. Ma io questo, sinceramente, non lo so di preciso, e se ti andasse a te di indagare più a fondo come negli anni venti del 900 i signori del petrolio, quelli del naylon e quelli della Bayer che avevano inventato l’aspirina e anche l’eroina e anche lo Zyclon B si fossero mutualmente coalizzati imponendo la proibizione delle coltivazioni di canapa , l’onere dell’opera meritoria, ancorché inutile, sarebbe tutto tuo.
Ma non è questo quello che precisamente intendevo raccontarvi. Solo, soffermandomi un momento e poi la faccio finita, al dondolio delle immagini sfocate di una processione silenziosa delle nostre madri, come se fosse stato con me bambino all’ombra della pergola che ebbero spezzata la leggiadria dell’incedere, battendo la canapa sotto il sole cocente, mi sovviene il racconto di come i contadini avessero scoperto apparire qua e là la forma allegra dei sementoni. Erano questi i fiori delle piante femminili cresciuti per sbaglio tra i fusti da fibra e che fiorivano d’estate, nel loro calice membranoso avvolgente l’ovario supero con gli stili e gli stimmi, mentre comparivano i semi carnosi e i cristalli di resina. Ed erano il dono che la canapa elargiva dopo il lavoro immane, onde le brigate di operai tutti quanti ci potevano finalmente fumando ballare, all’estivo gracidare delle rane, in effluvi di giacinto notturno e mirra.
Basta dunque parlare di quello che sappiamo tutti. La verità è quella che filtra dagli interstizi.
Quello che mi importa raccontare vi dicevo è come, inconsapevole benché fossi già grande , mi occupai della destinazione finale dell’ultima piantagione.
Si trattava in effetti di un piccolo appezzamento di piante femminili, di quelle destinate nientemeno che alla selezione delle sementi, così attraenti che anche tutti gli uccellini del creato ci si impazzivano rabbiosi, in un turbinio strepitoso e litigante di robusti verdoni e variopinti cardellini e dispettose cutrettole per la disperazione impotente dei coltivatori. Scoccava evidentemente l’ultimo anno di produzione e non c’erano più compratori. Affastellati al margine di un campo e abbandonati sotto il sole estivo, a fine settembre i covoni di canapa femmina recisi giacevano riarsi e abbrustoliti come biscotti. ” Bisogna portarla via ” disse mio fratello maggiore ” Vedi di darmi una mano”.
Chi ha meno di sessantacinque anni e non è delle nostre parti, può capire solo la metà del discorso che segue, ma forse basta lo stesso. Quel pomeriggio ci giocavamo e andava a compimento con Bologna Anderlect di coppa campioni una aspettativa di mesi, col secondo gol di Pascutti vanificato da un tipo che si chiamava Stokman e che giocava con gli occhiali affumicati . Cosi, ascoltando la radiolina abbottonata nel taschino delle braghe, a grandi bracciate con enorme forcone, mi diedi a sollevare giganteschi covoni di canapa secca e ad issarli su un carro dalle sponde altissime aggiogato al trattore Landini spento, come un leviatano in attesa di alzarsi sulle zampe. E come un turbine improvviso spariglia il clima e tutte le cose circostanti, così Immediatamente, sotto l’ultimo sole estivo, un polverone di foglie esauste, stecchi scoppiettanti e semenze aeree si sollevò avviluppando l’intero appezzamento, gli ontani fronzuti di rami sperticati, gli olmi vetusti di nodi contorti, i quercioli grondanti di ghiande , dimora di capanne dirimpettaie dei nidi dei merli nelle scorribande della mia infanzia e me in mezzo a loro. Il lavoro durò ben oltre l’intera durata dell’infausta partita ma, come sempre quando lavoravo di braccia, mi si librava la fantasia in meditazioni sui destini del mondo. Più intenso lo sforzo e più vorticoso il pensiero . Non è facile ricostruire quali risultanze ideali si costituirono quel pomeriggio. Ma esposte all’urto della mancata vittoria e sotto il vorticare delle polveri che mi impastavano i capelli sudati dal malato sole di settembre e mi intasavano le narici affamate di respiro, annullando il sentore arborico dei muschi, sono sicuro che furono le più profonde e grandiose che mai avessi concepito.
Fu oggetto allora della meditazione il caso. Il caso che ti aveva fatto nascere nella Bassa padana di barbabietole e canapa e non già nelle distese verde viola di azalee e begonie delle Fiandre. IL caso che ti aveva abbattuto anziché farti esplodere nel tripudio. Il caso che aveva collocato il tuo odio sportivo nella tua dimensione consueta anziché in una dimensione estranea e pur possibile. Incerto e precario era dunque il tuo essere, oggetto inconsapevole di arbitrario destino. E quale ragazzo sperduto nella follia dei campi stopposi, bigi e verdognoli della declinante estate, da una voce stupenda che solo le radio di allora ti potevano dare, mi raggiunse e sovrastò il cantare della luccicante follia di Gatto, il capitano cieco. Che affabulò frasi e sillabò parole di un bosco e di dormienti. Con suadente timbro di vocali accarezzò e ne sedusse il cuore e le meningi, e in perpetuati abissi eternò un racconto di soli fiati. E come non bastasse, quasi sapessero che ad ascoltare c’era un indifeso protoplasma della sua sola coscienza cosciente, proteso in divinazione di catastrofi, qualcuno da una remota sala studi ne travolse il cervello tramortito mettendo in onda le corali meretrici a cavallo dei Carmina Burana. Al volare allora di tardive farfalle ,ammonimento corale di sibille, non zufoli che lenissero il tuo dolore, non melodia temperata di clarino che ti indicasse dove andare, ma su acutissime dissonanze ed inni abbarbicati a trombe rampognarono senza misericordia i timpani, mentre da sconosciute armate occulte al mondo mossero a passo cadenzato e risoluto i distruttori manipoli del tempo . O Carro carico dell’ultima canapa della storia della pianura mentre ancora, risoluti nella loro lentezza, uno dietro l’altro migravano a sud i galli cedroni. Polvere pungiforme che ti sollevò alla sconfitta calcistica sotto il cielo indaco della prima pallida luna. E come appariva e dispariva di sotto le ciglia la smorfia sguincia della bambina di cui ero innamorato e di cui ricordo il nome. Ma che non mi voleva.